Un’escursione al chiaro di luna - tema svolto di Andrea Brazzoli

Correva svelto il mese di Agosto.
Come durante gran parte delle vacanze mi trovavo in Valtellina, in un piccolo paese a cui sono parecchio legato, nel quale ha origini la mia famiglia materna e dove mi reco, quando riesco, per evadere dall’ordinaria realtà di città, che, seppur possa rivelarsi per certi versi divertente, trovo in fondo monotona ed eccessivamente frenetica.
Quella mattina mi svegliai piuttosto tardi.
Le persiane erano già state aperte, e dalla finestra socchiusa filtrava un leggero venticello estivo, carico del profumo di sottobosco, con una delicata nota di aghi di pino.
Come di consueto gli uccellini dei vicini fischiettavano allegramente, incontrastati nella quiete del paese, rievocando ricordi della mia infanzia, quando dormivo nello stesso letto, che però vedevo più grande, e mi lasciavo svegliare dal loro cinguettio, immutato negli anni.
Dai vetri della stanza potevo intravedere solo un piccolo scorcio di cielo uniformemente celeste, tanto che pareva accuratamente dipinto e piano.
Dopo aver  beneficiato della sensazione di fascino che provavo mi alzai e andai in cucina, dove, ancora pervaso dal tepore della sonnolenza, feci una leggera colazione, chiacchierando con mia nonna, intenta a stendere la pasta, per poi tagliarla e farne delle tagliatelle.
Dopo aver pranzato con i miei familiari decidemmo, ovviamente, di trascorrere il pomeriggio all’aria aperta, immersi nella natura incontaminata dell’alta valle.
Stranamente fummo tutti d’accordo, ma io optai per utilizzare la mia Bianchi da corsa, una fra le più accese delle mie varie passioni, e partii quindi verso il “Passo del Mortirolo”, meta tra l’altro rinomata in ambito ciclistico.
Raggiunta la cima ritrovai i parenti, chi semplicemente steso sul primo prato trovato per prendere il sole, chi in cerca di qualche mirtillo superstite di fine stagione, e mio fratello Giovanni, intrepido camminatore un giorno, bizzarro pantofolaio un altro, appena tornato da una breve scampagnata.
Loro proseguirono in auto fino a raggiungere il versante della montagna bresciano, e io li seguii, poi tornammo a casa, ma arrivai solo per cena, soddisfatto per aver portato a termine quella faticosa pedalata.
Ed eccoci all’episodio sul quale ho deciso di soffermarmi in questo tema.
La sera, questa volta agevolmente in moto, uscii per bere un caffè in un bar nel paese vicino, punto di ritrovo della nostra calorosa compagnia, particolarmente protettiva nei miei confronti, il più piccolo, e sempre unita, capace di far diventare memorabili anche le esperienze più comuni.
Entrai nella locanda e ne incontrai il proprietario, Orazio, un uomo di mezz’età dai modi indubbiamente particolari, a cui tengo moltissimo, che, non più trafelato del solito, mi informò dell’idea di alcuni nostri amici di recarsi nei pressi della sua baita in alta montagna, per camminare con l’aiuto della luna piena che splendeva in cielo quella notte.
Dopo tutta la giornata in movimento declinai impulsivamente l’invito, ma una volta tornato a casa, attratto da quell’insolita gita, chiamai subito il gruppo per avvisare che avrei partecipato volentieri.
Partimmo così con un paio di automobili, che lasciammo parcheggiate in uno spiazzo lungo la strada, a circa 2200 metri sul livello del mare.
Infilammo gli scarponi e iniziammo quindi a camminare.
Non essendomi mai trovato così lontano dalla luce artificiale non immaginavo che il plenilunio fosse in grado di illuminare tanto quei luoghi, altrimenti immersi nel buio più totale.
I miei occhi non si erano ancora del tutto abituati a quella semioscurità, e rimanevano di continuo abbagliati dalla luna, talmente brillante da suscitare in me quasi un senso di predominio, che instancabilmente mi trovavo a fissare, reclinando la testa.
Sembrava che quel fioco chiarore potesse fermasse il tempo in quella vallata; tutto era immobile tranne noi umani, che parevamo spostarci impercettibilmente in un enorme quadro inanimato, che mi chiedevo se in quegl’attimi raffigurasse il mondo intero.
I ruscelli che attraversavano il sentiero sprigionavano un riverbero argenteo, stagliandosi perciò dal resto del paesaggio, e il loro sibilo persistente attutiva il rumore dei nostri passi pesanti.
A differenza delle nostre altre gite, spesso animate da strampalati cori o chiacchierate, le conversazioni erano pacate e ridotte al minimo, quasi fossero un oltraggio verso la natura, che si presentava in quei momenti nel pieno del suo incanto.
Dopo circa un’ora di tragitto raggiungemmo la nostra destinazione, ossia un laghetto alpino, presumo di origine glaciale, accerchiato per una buona parte da un boschetto di pini robusti, abbastanza bassi, capaci di resistere anche a quel genere di altitudine.
Vicino al lago c’era un grazioso rifugio, costruito da volontari, e all’interno trovammo due letti a castello con delle pesanti trapunte appoggiate sopra, due piccoli fornelli, un tavolo con varie candele quasi esaurite e uno scaffale con abbondanti provviste alimentari di ogni genere, alle quali aggiungemmo dei nostri viveri, a cui aveva fortunatamente pensato Elisa, una ragazza disinvolta e sempre vivace.
Sono rimasto entusiasta per queste iniziative di volontariato.
 L’altruismo e il rispetto che percepivo tra la gente in montagna, fin da piccolo, sono probabilmente le qualità che tuttora apprezzo di più nelle persone, e che paradossalmente mi sembrano lentamente sfumare in altri valori, a mio avviso meno ammirevoli, che si contraddistinguono oggi.
Considerata la stagione faceva piuttosto freddo: una tazza di tè caldo fu di grande aiuto.
Dopo esserci rifocillati, data la tarda ora, ci incamminammo verso le auto parcheggiate e tornammo in paese, dove ripresi la moto e raggiunsi casa mia.
Finalmente andai a letto, e mentre ripensavo alla giornata senza tregua che avevo vissuto e all’idea di prendere spunto da essa per la traccia del tema, tra il narrativo e il descrittivo, che avrei voluto scrivere da lì a poco, mi addormentai.
         Andrea Brazzoli      (25/08/2013)

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